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Nel 2025 le startup AI italiane sono principalmente “AI user”: integrano e adattano la tecnologia più che costruirla. I trend principali riguardano automazione, modelli predittivi e AI generativa, con forte collaborazione industriale. Normativa e compliance diventano vantaggi competitivi, mentre sfide su capitale e infrastrutture rimangono. La sandbox AI può accelerare validazione e adozione, rendendo l’innovazione più efficace e concreta.
Articolo di Edmondo Sparano
Osservando il mercato dal punto di vista del dealflow, l’ecosistema italiano dell’intelligenza artificiale nel 2025 appare come un organismo in evoluzione: meno sperimentale, più selettivo, ma ancora lontano dalle logiche di costruzione infrastrutturale che caratterizzano i Paesi leader del settore. Le nostre startup che attraggono più capitali non nascono per “costruire l’AI”, bensì per usarla meglio — per adattarla, verticalizzarla, tradurla in processi, prodotti e servizi da portare al mercato. È un posizionamento che definisce il profilo competitivo dell’Italia nel contesto europeo: “AI user” più che “AI builder”, ma con una crescente capacità di trasformare l’adozione tecnologica in vantaggio industriale. Guardando infatti il flusso dei progetti che quotidianamente analizziamo, possiamo distinguere tre direzioni:
L’AI che automatizza: processi documentali, customer service, analisi legale e amministrativa. È un’AI che riduce attrito e burocrazia, spesso guidata da startup nate tra lawtech e regtech. Qui il nostro paese offre migliaia di problemi da risolvere, quindi campo libero per le startup.
L l’AI che misura: predittiva, industriale, energetica. È quella che usa sensori, dati e modelli per anticipare comportamenti o ottimizzare consumi, dalla manifattura alla climatizzazione, alla business intelligence. Molto praticamente, trova ambito applicativo nell’importante tessuto industriale del paese.
L’AI che genera: contenuti, immagini, testi, prototipi di design, contenuti marketing, formazione... Qui si concentra l’interesse dei fondi, ma anche la saturazione più evidente: molte soluzioni sono brillanti sul piano tecnico, poche hanno una vera domanda dietro o una reale innovazione. Ed è una corsa a diventare standard di riferimento prima di diventare commodity: basta che un big player integri una funzionalità generativa, che un intero settore finisce per diventare obsoleto.
Questa evoluzione è riscontrabile anche nel cambio di linguaggio utilizzato dalle startup AI. Fino a due anni fa le startup AI si confrontavano su modelli, accuracy, layer e parametri. Oggi parlano di metriche di business: conversion rate, churn, efficienza operativa.
Dal vantage point del dealflow, si ha così la sensazione che stia emergendo una generazione di imprenditori più ibrida: meno accademica, più sistemica, tecnici orientati al business, e viceversa, ma decisamente più pratici ed il flusso dei deal early-stage conferma questa traiettoria.
A conferma d ciò, le startup che hanno raccolto investimenti nel 2025 operano prevalentemente su layer applicativi: soluzioni di AI generativa per marketing e contenuti, computer vision per il controllo qualità, NLP per la gestione documentale e la compliance, modelli predittivi per supply chain e manutenzione, sistemi di raccomandazione e automazione dei flussi di lavoro. In tutti i casi, la tecnologia di base è open source o adattata da framework internazionali, la differenza la fa l’integrazione nel contesto d’uso, l’interfaccia con i dati locali e la capacità di dialogare con processi reali.
Il cambio di paradigma verso un approccio “AI user”, non è casuale, riflette un ecosistema in cui la scarsità di risorse computazionali, la frammentazione del capitale e la mancanza di poli di ricerca di scala mondiale hanno spinto le startup a privilegiare l’intelligenza d’implementazione più che quella d’invenzione. Dove mancano i supercomputer, nascono architetture leggere; dove scarseggiano dataset proprietari, si sviluppano pipeline di synthetic data e modelli di fine-tuning mirato; dove l’AI di base è importata e mancano le risorse per competere con i grandi sviluppatori di foundation model, la sfida si sposta sul costruire un prodotto capace di adattarsi rapidamente a una frontiera tecnologica in continua evoluzione.
Nel nostro Paese l’intelligenza artificiale è sfruttatata come uno strumento di efficienza, non di discontinuità, riflesso di un tessuto industriale storicizzato che adotta la tecnologia per necessità. la crisi demografica, la carenza di competenze tecniche e la pressione sui margini spingono le imprese verso l’automazione intelligente. Le startup italiane rispondono a questa domanda fornendo modelli leggeri, comprensibili, in linea con le normative europee e facilmente integrabili con i sistemi esistenti. E declinano la tecnologia ad uso e consumo dei settori in cui si posizionano.
La sanità, ad esempio, rimane uno dei campi più fertili e prospetticamente interessanti: algoritmi per l’analisi di immagini medicali, triage predittivo, ottimizzazione dei percorsi terapeutici e strumenti per la ricerca clinica basata su dati sintetici. In questi ambiti la normativa diventa un vantaggio competitivo, perché costringe le startup a un rigore metodologico che aumenta la credibilità scientifica delle soluzioni.
Nel settore manifatturiero, l’intelligenza artificiale si intreccia con la tradizione industriale italiana. Le startup che operano su visione artificiale e manutenzione predittiva collaborano direttamente con imprese di medie dimensioni, spesso attraverso progetti pilota o modelli di co-sviluppo. È l’area dove il tasso di adozione è più alto e la disponibilità di dati è maggiore. Il fintech italiano, invece, utilizza l’AI per semplificare processi complessi: scoring creditizio, rilevazione di frodi, automazione documentale e assistenza regolatoria. Qui l’AI non sostituisce le strutture finanziarie tradizionali ma le rende più efficienti, riducendo i tempi di verifica e aumentando la trasparenza.
Nel marketing e retail, la generativa si sta affermando come strumento operativo più che creativo: piattaforme di ottimizzazione dei contenuti, analisi predittiva dei comportamenti d’acquisto, strumenti per la personalizzazione automatica delle campagne pubblicitarie.
Anche l’energia e l’agritech stanno emergendo come campi promettenti: modelli di previsione meteorologica, gestione delle micro-grid, agricoltura di precisione e monitoraggio satellitare.
In tutti questi ambiti si intravede una caratteristica comune: la tendenza alla co-creazione con le imprese. Le startup italiane non sviluppano prodotti in isolamento, ma costruiscono insieme ai clienti le applicazioni su misura. Doversi adattare alla velocità di aziende più grandi, le rendele lente nel breve termine, ma più robuste nel lungo periodo.
Le nostre startup che attraggono più capitali non nascono per ‘costruire l’AI’, bensì per usarla meglio.
Se Stati Uniti e Cina si contendono la supremazia dell’AI di base ( i foundation model, le GPU, le piattaforme)l’Europa si muove sull’etica e sulla regolazione. Qui l’Italia trova la sua posizione naturale nella “messa a terra”: prende ciò che l’AI produce e lo rende utile, leggibile, conforme, economicamente sensato. Questo orientamento sta dando vita a un’economia che potremmo definire AI integrator economy: un sistema dove il valore non nasce più dalla tecnologia in sé, ma dalla sua capacità di penetrare le strutture esistenti.
È un modello meno spettacolare ma più sostenibile, perché sposta il vantaggio competitivo dal “quanto sei grande” al “quanto sei preciso” (e qui ce la possiamo giocare). L’AI italiana cresce dove la tecnologia incontra il mestiere: nel design industriale, nella logistica, nella qualità alimentare, nella manifattura avanzata. Settori dove servono algoritmi che non sbagliano, che dialogano con sensori e macchinari, che rispettano normative e tempistiche. Qui la creatività italiana trova una nuova forma: non quella dell’invenzione, ma quella dell’adattamento. Dal punto di vista del venture capital, questa transizione è cruciale. Impone un cambio di paradigma: valutare le startup non per la novità tecnica, ma per la profondità d’integrazione.
Così i molti fondi stanno già spostando la due diligence dal laboratorio ai processi: quanto costa l’onboarding dell’AI? Quanto è scalabile il modello se applicato in ambito regolato? Come si gestiscono la privacy e la trasparenza delle decisioni? Sono domande che pochi anni fa sarebbero sembrate marginali e oggi determinano la finanziabilità di un progetto.
La sandbox AI di prossima attuazione si inserisce esattamente in questo contesto: una palestra di validazione che non premia la ricerca fine a sé stessa, ma la capacità di trasformare la ricerca in compliance operativa. Se concepita come un vero ambiente di sperimentazione controllata, la sandbox può trasformare il modo in cui le startup testano, validano e certificano le proprie tecnologie, mettendo le aziende che la adoperano in condizione di “fidarsi”, superando quella diffidenza naturale quando si affida un processo “core” ad una giovane impresa. Si potrebbero accorciare i tempi di adozione, ridurre l’incertezza legale e migliorare la qualità dei dati di validazione, offrendo agli investitori la possibilità di identificare e valutare i rischi potenziali. Il rischio è ineve quello che finisca con essere una trappola normativa: la sua efficacia dipenderà proprio dalla capacità di costruire un quadro di regole flessibile ma rigoroso, con una governance indipendente e KPI chiari. Può diventare così un acceleratore sistemico, un luogo di convergenza tra startup, università e corporate, per sperimentare modelli AI ad alto impatto sociale o economico. E in un Paese dove la lentezza della validazione è uno dei principali ostacoli alla crescita, la sandbox può trasformarsi nel motore che allinea innovazione e regolazione. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, il “made in Italy” potrebbe così assumere un significato del tutto nuovo. Non come marchio di stile o di estetica, ma come garanzia di precisione, sicurezza e affidabilità. Un marchio implicito, costruito non sui modelli ma sui processi. Se un’azienda utilizza una piattaforma nata in Italia, potrà dirsi certa che quella piattaforma è stata disegnata con rigore, conforme alle regole, integrata nei flussi produttivi e tarata sulla realtà del settore. Non male, per un Paese che dell’arte di adattare ha fatto una competenza industriale.
L’Italia trova la sua posizione naturale nella messa a terra: prende ciò che l’AI produce e lo rende utile, leggibile, conforme, economicamente sensato.
Nonostante i progressi, il quadro sembra restare fragile. L’Italia continua a soffrire di tre deficit strutturali: capitale, infrastrutture e trasferimento tecnologico. I fondi specializzati in AI sono pochi e di dimensioni ridotte; le risorse computazionali – GPU farm, data center, modelli di addestramento – sono scarse; la collaborazione tra università e imprese è episodica. Mancano, soprattutto, una visione industriale coordinata e una politica di lungo periodo per la costruzione di asset strategici.
Il risultato è che le startup italiane restano perlopiù - come dicevamo - utilizzatrici dell’AI: resellers che acquistano la materia prima, la personalizzano, vi costruiscono sopra valore e rivendono un servizio. La mancanza di una base tecnologica autonoma rende pertanto l’intero ecosistema dipendente da provider esteri e vulnerabile a cambiamenti di licenze, costi o policy d’uso: significa esporsi a variabili che non si controllano, tecnologiche, economiche e potenzialmente geopolitiche.
A ciò si aggiunge un problema culturale: la retorica dell’AI in Italia è ancora fortemente accademica o relegata allo storytelling di un prodotto (nella maggioranza dei casi c’è ancora troppa “fuffa”), più che imprenditoriale. Molte iniziative nascono nei laboratori universitari o su qualche repository github sfavillante di stelline, ma poche riescono a superare la soglia dell’industrializzazione. I fondi pubblici, spesso frammentati e burocratici, finiscono per alimentare una ricerca fine a sé stessa, non un ciclo economico dell’innovazione.
Resta da capire quale sarà il nostro ruolo in un ecosistema tecnologico in cui sistemi capaci di imitare il processo decisionale umano avanzano rapidamente e richiedono una supervisione sempre più ridotta.